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sabato 17 dicembre 2016

Proprietari di vecchio stampo, La mantella - Nikolaj Gogol

Proprietari di vecchio stampo - Nikolaj Gogol
Tratta da: Mirgorod
Pagine: 29


RECENSIONE                                                                     

Proprietari di vecchio stampo è una novella di ventinove pagine in cui non succede essenzialmente niente. È il racconto di uno spaccato della vita di Afanasij Ivanovic e Pulcherija Ivanovna, lui sessant'anni, lei cinquantacinque, i due proprietari di vecchio stampo. La descrizione minuziosa della loro quotidianità riempe almeno i due terzi delle pagine: essa si compone dei loro movimenti lenti, del loro a d a g i a r s i sulle comodità, sulla ripetitività, sulla calda sicurezza dell'abitudine. I due sembrano muoversi su una nuvola, o immersi nel cotone: il loro mondo è soffice e attutito, la loro quotidianità scorre inconsapevole di ciò che avviene all'esterno, delle truffe e della sostanziale cattiva gestione della proprietà. Il loro tempo dilatato è scandito, non dalle lancette dell'orologio, ma dai pasti che si susseguono l'uno dopo l'altro in brevissimi intervalli di tempo. Il pasto è un rito, un culto sacro; un dovere a cui si deve assolvere obbligatoriamente ogni due o tre ore e a cui va reso onore con estrema riverenza. I piatti sono tipiche pietanze russe, che vengono descritte con una minuziosa quasi morbosa e arricchite di dettagli colorati ed invitanti. L'atto del nutrire l'altro è anche il modo in cui Pulcherija dimostra tacitamente il suo amore ad Afanasij: si viene a creare, infatti, nel corso della lettura, un'atmosfera piena d'amore e di sentimento genuino e puro, ma senza che questo venga mai esplicitato a parole dai personaggi e senza che nemmeno il narratore esterno lo descriva in terza persona. I due proprietari sono i rappresentati di un mondo ormai vecchio e sorpassato, che senza accorgersene si sta avvicinando al decadimento, che non è più in grado di tener testa al progredire delle epoche, ma che resiste proprio grazie a questo amore, a questa relazione che si staglia incorrotta in mezzo alla

putrefazione della materialità e del progresso. Si comprende l'incredibile forza di questo sentimento solo alla fine, quando esso viene sostituito da un'altra forma del sentire, altrettanto potente, ma questa volta brutale: il lacerante dolore della perdita, la presenza opprimente di un'assenza.
In sole ventinove pagine, Gogol riesce a racchiudere un reportage di vita quotidiana caratterizzato da una cura maniacale, un'estremo realismo che però non tralascia la piacevolezza delle descrizioni, addobbate di aggettivi coloriti, attributi simpatici, diminutivi e vezzeggiativi. Allo stesso tempo, riesce a calarsi in profondità, oltre la superficie reale, per indagare le radici profonde dell'uomo, le sue problematiche esistenziali. La sua scrittura è capace di divertire attraverso la rappresentazione della semplicità e della goffagine dei protagonisti e al contempo di intenerire, di far commuovere e di toccare le corde dell'interiorità. 

"Mio dio! Cinque anni di tempo che tutto distrugge, un vecchio ormai insensibile, un vecchio che pareva che la vita non avesse mai agitato con nessun forte moto dell'anima, per il quale pareva che tutta la vita fosse consistita solo nello starsene seduto su di una seggiola alta, nel mangiare pescetti salati e pere, nei racconti bonari, e invece ecco un dolore così lungo, così cocente! Cos'è dunque più forte in noi: la passione o l'abitudine? O tutti gli slanci violenti, tutto il vortice dei nostri desideri e delle passioni ribollenti sono soltanto una conseguenza dell'età nostra smagliante, e soltanto per questo sembrano profondi e distruttivi? Comunque sia, tutte le nostre passioni mi sembravano infantili a confronto di questa lunga, lenta, quasi insensibile abitudine. (...) Le sue erano lacrime che scorrevano senza chiedere il permesso, da sole, accumulate dall'asprezza del dolore di un cuore ormai spento."

VOTO:






La mantella - Nikolaj Gogol
Tratta da: Racconti di Pietroburgo
Pagine: 43


RECENSIONE                                                                 
La mantella è la storia del funzionario Akakij Akakievic, che vive una vita preconfezionata e passiva, vi scorre all'interno come per inerzia, senza neanche muovere un passo di sua spontanea iniziativa. Un motivo decisamente ricorrente nella letteratura russa è proprio questo: l'uomo inutile, inetto, che compie degli atti concreti solo tra le quattro mura dell'ufficio, dove si inchina diligentemente e con zelo per indossare il giogo che gli viene imposto da chi sta più in alto di lui. L'unica azione che Akakij compie è quella di copiare le lettere altrui in bella calligrafia e senza errori. È significativo come neanche a casa propria egli si liberi di questo compito: Akakij non scrive un diario, non scrive poesie, bensì copia. Tutta la sua vita gira attorno alla copiatura di lettere, è solo questo che riempe le sue giornate fino al momento in cui, con l'arrivo del freddo, nella sua esistenza piatta, caratterizzata da miseria, povertà e sacrificio subentra un elemento nuovo: il desiderio di una mantella. Egli si accorge che il suo cappotto si è ormai ridotto a un panno logorato che a malapena gli copre le spalle; incapace, quindi, di proteggerlo dal gelo pietroburghese. La sua mente viene pervasa ventiquattr'ore su ventiquattro dal pensiero di una mantella ideale. Egli può permettersela solo a scapito del proprio benessere: tutto in lui si tende verso il desiderio della mantella, che fa passare in secondo piano anche il nutrimento e lo porta a saltare la cena per risparmiare. Solo quando egli arriva a possederla è, per la prima volta nella sua vita, felice e fiero. La mantella probabilmente rappresenta il primo obiettivo raggiunto nella sua vita, per il quale ha lottato e si è messo in gioco. 
La scrittura di Gogol è fenomenale nel ritrarre quest'uomo così misero e passivo, ma verso il quale istintivamente il lettore non può far altro che provare tenerezza e compassione. Fa commuovere la felicità pura e incorrotta che egli prova nel momento in cui finalmente riesce a realizzare un desiderio che gli appariva così inarrivabile e che da chiunque altro viene dato per scontato, viene considerato qualcosa di raggiungibile nell'immediato. Fin dall'inizio però queste emozioni positive sono in qualche modo macchiate da un'angoscia latente, da un grande "ma" in agguato, pronto a minare la serenità che si viene a creare. Il lettore si tende come una corda di violino, viene spinto a continuare la lettura per vedere come andrà a finire. L'immedesimazione è profonda. 
È eccezionale come l'autore, a questo punto, dopo essersi sforzato nel creare le condizioni che permettessero l'immedesimazione, in un attimo le distrugga. Nel finale infatti la narrazione subisce una svolta netta e radicale: dall'estremo realismo nella descrizione della vita quotidiana del personaggio, della psicologia dei suoi superiori, dell'ambiente pietroburghese coi suoi riti e le sue convenzioni si passa repentinamente al genere fantastico-surreale. Ho interpretato la svolta finale come la costruzione di un'allegoria efficace per rappresentare in modo velato un tema delicato, e in qualche modo renderlo più facilmente "digeribile": la malignità degli individui, l'estremo egoismo e l'insensibilità di un ambiente cittadino che sopprime il singolo.
Una storia di sole quaranta pagine, ma estremamente emozionante e intensa. 


VOTO:

sabato 10 dicembre 2016

La figlia del capitano - Aleksandr Pushkin

La figlia del capitano - Aleksandr Pushkin
Pagine: 143
Edizione: Mondadori
Titolo originale: Kapitanskaja doc'ka


TRAMA                                                                                  

La figlia del capitano narra le avventure del giovane alfiere Petr Grinev che, accompagnato dal precettore, intraprende il viaggio per raggiungere la lontana fortezza cui è stato destinato. Facendo sosta alla fortezza di Orenburg, Petr si innamora della timida Masa, figlia del capitano della fortezza. Sullo sfondo, la rivolta cosacca del ribelle Pugacev.


RECENSIONE                                                                            

La figlia del capitano è un librettino di circa 150 pagine su cui mi sono arrovellata a lungo. Narra la vicenda di Pёtr Grinёv, il giovane protagonista che lascia la casa dei genitori ed intraprende un viaggio nel corso del quale compie numerose avventure, a partire dal momento in cui la sua sorte si intreccia alla rivolta di Pugacev. La cornice è quindi, palesemente, quella di un romanzo di formazione, che si intreccia poi con il genere del romanzo storico basato su fatti reali, che da voce a tematiche sociali. 
Se avessi dovuto dare un giudizio su questo libro, affidandomi all'impulso, subito dopo aver finito di leggerlo lo avrei definito una commediola, in cui i protagonisti si comportano in modo insensato, seguendo logiche esagerate e grottesche. Le sorti dei protagonisti della vicenda sono infatti altalenanti tra momenti di stragi e dolore infinito e altri di estrema (irreale) fortuna e coincidenze fuori dall'ordinario. L'assurdità di ogni avvenimento è il tratto distintivo e più ricorrente del romanzo, che si svolge quindi in un'atmosfera tragicomica decisamente marcata. Se dovessi affidarmi esclusivamente a questo giudizio, la valutazione finale del romanzo non sarebbe positiva. Nonostante gli insegnamenti del vecchio Coleridge a compiere sempre la willing suspension of disbelief per immedesimarsi pienamente nei mondi letterari, per quanto assurdi essi siano, quasi mai riesco ad apprezzare il surreale e tanto meno ad immedesimarmi in esso.
È anche vero che ogni storia, dopo esser stata letta con attenzione, merita un periodo di sedimentazione nella mente del lettore, merita che le venga dato tempo per un'analisi che prenda in considerazione più prospettive. In questo caso, ho valutato che la  mia interpretazione a posteriori avrebbe dovuto considerare il libro nella sua interezza, ovvero inserito in un contesto storico preciso e decisamente rilevante anche nella storia fittizia. Pushkin decide di ambientare la sua storia un periodo storico movimentato, ricco di azioni insensate che prendono avvio da istintuali e viscerali ambizioni di megalomania dei loro autori e che portano a conseguenze sanguinose e violente. Ho interpretato l'approccio dell'autore a questo tipo di contesto come una volontà di narrare una storia dai tratti così estremi portandola ancor più all'eccesso, fino a crearne una specie di parodia. Dietro a questa, si nascondono però tematiche di una certa profondità: la necessità di adottare una soluzione ai problemi del tempo che non comporti nè violenza nè quel tipo di giustizia che presuppone uno squilibrio tra il potere e il popolo e
di venire a creare un rapporto diverso tra gli individui, basato sulla clemenza. Ciò viene rappresentato attraverso la significativa scena in cui Maria Ivanovna, semplice e povera figlia del capitano, riesce ad avere un disinvolto colloquio con la zarina Caterina. Attraverso un procedimento letterario, la zarina è rappresentata come una vecchietta al parco con il suo cagnolino, che utilizza un linguaggio famigliare; la sua figura è quindi "abbassata" e portata ad un livello di parità con la ragazza. 
Il testo rende anche evidente come i personaggi non siano semplici spettatori della storia, bensì immersi in essa: la Grande storia entra in rapporto con la Piccola storia - la vita concreta delle persone - e scrivendo questo, Pushkin vuole invitare le grandi personalità del suo tempo a non dimenticarsi del popolo e del suo destino. 

VOTO:


venerdì 9 dicembre 2016

La marcia di Radetzsky - Joseph Roth

La marcia di Radetzsky - Joseph Roth
Pagine: 467
Edizione: Giunti 
Titolo originale: Radetzskymarsch


TRAMA                                                                                
Durante la battaglia di Solferino il sottotenente Joseph Trotta salva la vita all'Imperatore Francesco Giuseppe, ottenendo un titolo nobiliare. Ha così inizio l'ascesa della famiglia Trotta, in un'epoca in cui il potere degli Asburgo sembra ancora incrollabile. Ma dietro l'apparente splendore si avvertono i primi segnali di decadenza. Carl Joseph, l'irresoluto nipote dell'eroe di Solferino, non ha certo ereditato il robusto valore del nonno e si ritrova incapace di agire di fronte al "nuovo" che avanza.


RECENSIONE                                                                          
La marcia di Radetzsky è un libro di circa cinquecento pagine di cui sono venuta a conoscenza al corso di letteratura tedesca e di cui mi è stata assegnata la lettura integrale per l'esame. Dall'analisi che ne avevamo fatto in classe, si era impresso nella mia mente come un romanzo pesante, reso ripetitivo dal susseguirsi di motivi conduttori messaggeri di decadenza e morte. E' effettivamente di decadenza e di morte che parla questa storia, ma in modo diametralmente opposto rispetto a ciò che mi ero immaginata.
I rimandi e le simbologie hanno una potenza evocativa formidabile e contribuiscono a far parlare questo romanzo attraverso un arco temporale di quasi un secolo, a renderlo estremamente vicino al nostro sentire. Le pene dei personaggi richiamano le nostre stesse sofferenze, i nostri crucci, le angosce che ci pesano addosso ogni giorno: la condanna del tempo che passa, i capelli che si ingrigiscono e le membra che si imprigriscono; la memoria che si assottiglia. Il susseguirsi delle epoche, la malinconia nei confronti di ciò che ci lasciamo alle spalle e lo spaesamento e il sentimento di alienazione che proviamo di fronte alla novità incombente che sembra non appartenerci, quando in realtà siamo semplicemente noi a non appartenere a lei. Dobbiamo essere, per questo, annichiliti dal progresso e dall'evoluzione che non sta ad aspettarci. L'unico appiglio sono i sentimenti di gioia che ci portiamo dentro, ma che possiamo mantenere vivi solamente recuperando continuamente il passato e che non trovano riscontro nella nostra quotidianità. E sopra a tutto questo, come una nube nera che ci sovrasta, la perenne presenza della morte che ci attende. 
Tutta questa ricchissima gamma di temi esistenziali è rappresentata allegoricamente dal declino della famiglia Trotta, che si fa progressivamente più drastico nel corso di tre generazioni, accompagnato dal malinconico ritornello de La marcia di Radetzsky. 
Solitamente, i romanzi che devono presentare così tante tematiche di un certo peso che richiedono una certa quantità di tempo - in questo caso, di pagine - per essere trattate in maniera esauriente sono caratterizzati da una sostanziale assenza di azione e una preponderante presenza di descrizioni chilometriche o di speculazioni filosofiche. Essere all'altezza di un tale tipo di scrittura non è da tutti e infatti, nella maggior parte dei casi, questi tipi di romanzi finiscono per essere relegati nel dimenticatoio, destinati a fare la muffa sugli scaffali delle librerie, a causa della loro pesantezza, che solo i più accaniti (e, si può dire, masochisti) lettori si accingono ad affrontare. La marcia di Radetzsky si è dimostrato una piacevole eccezione alla regola: l'intreccio è parecchio movimentato e ricco di avvenimenti, di relazioni e conflitti; i personaggi sono a tutto tondo, rappresentati tanto nella solitudine quanto nella vita in comunità. Mi sono affezionata a loro e mi sono sentita coinvolta nelle loro vicende, ho imprecato contro di loro per gli errori commessi e per i loro incurabili vizi e difetti. 
Per non parlare poi delle descrizioni. Oh, che belle descrizioni. Mi riferisco proprio a quelle digressioni descrittive che solitamente sono i principali ostacoli alla piacevolezza della lettura e di cui qui, invece, non si potrebbe fare a meno: non sono orpelli superflui, inseriti tra gli eventi solo per far sfoggio di termini forbiti e aumentare il numero delle pagine, ma contribuiscono ad elevare ogni cosa che si legge ad un livello superiore. Grazie alla potenza delle descrizioni, è come se ogni cosa venisse portata fuori dalla pagina e ci finisse addosso, per farci restare lì bloccati ed inebriati dall'impatto. Arrivata alla fine sono state proprio le descrizioni a portarmi quasi alla commozione: i suoni e i
profumi accompagnano la finale caduta dei personaggi come una solidale e compassionevole ninna nanna. Mi sono sentita avvolta da essa, come se il libro la stesse facendo "cantare" anche per me e per tutti noi, che come i protagonisti del romanzo siamo condannati ad un inevitabile decadimento. 
Questo romanzo di Roth ha il pregio di essere uno di quei libri che non esauriscono il proprio effetto dopo esser stati letti, perchè sono capaci di parlare attraverso gli anni e di rappresentare condizioni esistenziali sempre attuali e in cui il lettore si sente inevitabilmente preso in causa. 


VOTO: 9

sabato 5 novembre 2016

Lessico famigliare - Natalia Ginzburg

Lessico famigliare - Natalia Ginzburg
Pagine: 219
Edizioni: Einaudi

TRAMA                                                                      
La chiave di questo romanzo è delineata già nel titolo. Famigliare, perché racconta la storia di una famiglia ebraica e antifascista, i Levi, a Torino, tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento. E Lessico perché le strade della memoria passano attraverso il ricordo di frasi, modi di dire, espressioni gergali. 


RECENSIONE                                                                          
Lessico famigliare è un libro molto famoso, di cui avevo sentito tanto parlare, ed è un libro che a sua volta parla. E dico proprio così, parla, perché è caratterizzato da una lingua oralizzata e gergale, perché le lettere stampate sul foglio in realtà non sono altro che la trascrizione di frasi dette, ripetute negli anni e diventate motto all'interno della famiglia della scrittrice, parole d'ordine per il riconoscimento tra i componenti. Sulla base di tali frasi costruisce la storia della sua vita famigliare partendo da ancor prima della sua nascita, nel 1916, fino ad anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Di questa storia fanno parte tutti i membri dell'albero genealogico, anche i più disparati soggetti che svolgono un ruolo di semplice comparsa: appaiono in un lampo e alla fine del paragrafo sono già spariti per sempre. Ma tutti questi parenti, vicini e lontani, si inseriscono nel contesto a cui appartengono, il romanzo si costella di echi della contemporaneità e di personaggi storici realmente esistiti, quali Turati, Einaudi, Pavese, Olivetti. 
La Ginzburg ha una grande maestria nella caratterizzazione dei personaggi, sa dipingerne l'essenza riportando pochi gesti, qualche abitudine. Ha occhio, scova i dettagli più strani e che normalmente passano inosservati. Sono personaggi tratti dalla sua vita reale e quotidiana, perciò me la sono immaginata osservare le persone con gli occhi fessurati e attenti, studiandole e plasmandole già nella sua testa come futuri personaggi di cui dover scrivere. L'autrice racconta, infatti, non da un punto di vista postumo, ma ha la capacità di mantenere quello dell'epoca, come se stesse prendendo annotazioni proprio sul momento dell'azione. Inoltre, la sua presenza passa quasi inosservata; quasi mai accenna alla propria persona o alle proprie emozioni, e anzi si mantiene piatta e coerente anche di fronte agli avvenimenti più tragici, come la morte del marito, che viene ricordata in una riga solamente, senza un cenno di emotività. 
Le ultime cinque pagine sono costruite su un rapido botta e risposta di frasi molto brevi e secche tra padre e madre, che presi dalla frenesia del trasloco della figlia a Roma, fanno una carrellata di ricordi di persone ed aneddoti degli anni passati, ripetono tutte le frasi che avevano svolto, nella storia, lo stesso ruolo di un ritornello. Come se ci si trovasse davanti ad un'orchestra che, arrivata alla fine del componimento musicale, si sente invadere da una forte malinconia e dal desiderio che il pezzo in realtà possa non finire mai; e a questo punto tutti gli strumenti cominciano ad alzare i toni e velocizzare il ritmo, si scavalcano l'un l'altro per far sentire la propria voce, in un crescendo che poi di colpo si spegne su una frase del padre "Ah non cominciamo adesso col Barbison! Quante volte l'ho sentita contare questa storia!".
Sinceramente, molto altro da dire su questo romanzo non c'è, perchè non si basa su un intreccio, non contiene azione: è semplicemente un diario di bordo della vita in famiglia, fatta di aneddoti, persone e frasi ripetute all'infinito. Non mi ha lasciato molto, se non il pensiero che effettivamente ogni rapporto si identifica con alcune parole, che risuonano come un eco nella bolla d'affetto che si crea tra le persone. 


VOTO: 6

martedì 25 ottobre 2016

Nel museo di Reims - Daniele del Giudice

Nel museo di Reims - Daniele del Giudice
Pagine: 46
Edizione: Mondadori 


TRAMA                                                                        
"È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura". Inizia così il racconto di Barnaba, un giovane ex ufficiale di Marina che a causa di una malattia mal curata sta perdendo progressivamente la vista. Barnaba ha deciso di sfruttare il tempo che gli rimane per fissare nella memoria alcuni capolavori dell'arte. E per questo lo troviamo nel museo di Reims, tra le tele di Corot, Gericault e Delacroix. Ma Barnaba è lì per un quadro in particolare: la morte di Marat di David. Quella tela, da quando l'ha vista in una riproduzione, è diventata un piccolo rovello: ha subito sentito che in qualche modo lo riguardava. Mentre Barnaba si aggira per le sale del museo, la voce accesa e leggera di una donna gli si affianca. E' Anne, di cui Barnaba non riesce ad afferrare nemmeno il colore esatto degli occhi. Anne ha indovinato il suo segreto e inizia a descrivergli i quadri che lui quasi non vede. Tra i due nasce come un gioco fatto di pudica sensualità, di intima tenerezza. Perchè Anne in alcuni casi mente, racconta quello che non c'è, inventa particolari. E Barnaba lo sa. 


RECENSIONE                                                                                        
Nell’edizione Mondadori del 1988, in una nota della postfazione, l’autore si rivolge in prima persona al lettore: “Vorrei dire che alla base di Nel museo di Reims c’è solo un pacco di fotografie di quadri non troppo messe a fuoco e in bianco e nero ricevute da quel museo un po’ di tempo fa, una piccola scoperta incidentale in un volume di storia della medicina mentre finivo di scrivere il racconto, e una mia personale esperienza di bugie”. Questo breve, ma intenso racconto viene presentato come nato per caso, sbocciato nell’immaginazione dello scrittore alla vista di fotografie di quadri offuscate e senza colori, esattamente come i quadri stessi si presentano agli occhi di Barnaba, il protagonista sull’orlo della cecità a causa di una malattia mal curata, che desidera concedersi per l’ultima volta, prima del buio totale, la visione del quadro di David, La morte di Marat. La co-protagonista è Anne, una ragazza bionda e di bell’aspetto, il cui volto rimane, per tutta la storia, indecifrabile al lettore, perché visto attraverso gli occhi offuscati di Barnaba. La giovane donna resta come in una nebbia, o meglio in un’aura di luce, e svolge la stessa funzione di Beatrice per Dante: è una presenza eterea e salvifica. È una voce personificata, che guida il protagonista attraverso le sale del museo e, avendo intuito il suo problema, gli illustra i quadri e anche ciò che sta oltre essi. Anne racconta e, raccontando, mente ed inventa dettagli che in realtà non esistono: insegna, in questo modo, a Barnaba a vedere oltre le sue pupille offuscate. La loro si presenta come una relazione capovolta rispetto a quella di Montale e Drusilla Tanzi, in cui era lei, con le sue pupille offuscate, ad insegnare a lui che la vera realtà sta oltre le cose, come viene narrato dal poeta stesso nel componimento Ho sceso, dandoti il braccio. Grazie a questo tema del raccontare, si può dire che il testo fornisca spunti di riflessione metaletterari sulla questione di racconto come invenzione e menzogna.
È anche un romanzo sulla percezione, sull’importanza dei sensi, che però devono coesistere con la sensibilità extrasensoriale, l’empatia, la comprensione dell’altro. Barnaba, inizialmente sopraffatto dall’aiuto improvviso che gli viene fornito, non coglie l’insegnamento di Anne e rigetta le sue bugie; non avverte, dietro il desiderio di lei di salvarlo, la sua necessità di essere salvata a sua volta. 

“Devono esistere delle malattie diverse dalla mia, senza danno apparente, senza menomazione, anzi contornate dalla bellezza e dalla gaiezza, malattie di cui è difficile dire dove ledono e dove fanno male, ma non per questo meno gravi, meno dirompenti. Invece di scoprire se mentiva o no avrei dovuto capire, come lei ha capito, avrei dovuto aiutarla, dovevo riuscire a essere io lei, avrei dovuto metterla di fronte a se stessa, permetterle di incontrare se stessa vivente nei gesti e nelle parole di un altro.”

Il testo, che si può definire un racconto lungo o romanzo breve, non presenta una suddivisione in capitoli. Sono solamente gli spazi bianchi tra un paragrafo e l’altro a segnalare un cambiamento di
ritmo e di narratore. La narrazione si sviluppa, infatti, a doppio binario, alternato tra una prima persona affidata al protagonista Barnaba e una terza persona del narratore onnisciente. Il lessico è preciso e c’è una ricca aggettivazione, rispetto alla descrizione prevalgono le parti dialogate. Di notevole importanza è il monologo finale del protagonista, che fornisce una risposta a tutto ciò che durante il corso della storia rimane avvolto da un grande punto di domanda. Pur trattandosi di linguaggio parlato, lo stile non è mai gergale, bensì si mantiene su un tono medio uniforme. Il finale è aperto e lascerebbe presupporre un seguito, il resto del racconto offre uno spaccato di vita dei due personaggi principali.
È un testo molto corto, tanto da sembrare quasi una bozza un po' affrettata. L'idea di fondo è intrigante, accattivante e originale, ma avrebbe potuto essere sviluppata più profondamente. Si legge tutto d'un fiato, nel giro di un'ora e poi non rimane nulla.


VOTO: 6

sabato 22 ottobre 2016

Niente di nuovo sul fronte occidentale - Erich Maria Remarque

Niente di nuovo sul fronte occidentale - Erich Maria Remarque
Pagine: 226
Edizione: Mondadori
Titolo originale: Im westen nichts Neues

TRAMA                                                                                      
Facendo leva sugli ideali della nazione, onore e orgoglio, gli insegnanti di una scuola tedesca persuadono i propri allievi ad arruolarsi come volontari per difendere la propria patria. Il protagonista, Paul Bäumer, si arruola insieme ad alcuni suoi compagni di classe. Hanno tutti diciannove anni e sono convinti di vivere una grande avventura, di essere destinati a diventare eroi. Tuttavia, con il passare del tempo, i ragazzi si accorgono di quanto la guerra sia inutile.


RECENSIONE                                                                          
I romanzi di guerra mi hanno sempre affascinato. Narrano una realtà che pare lontana, nonostante sia estremamente concreta. E' sempre così che accade: si sente parlare di guerra, si pensa di sapere cosa essa sia grazie ai racconti che abbiamo ascoltato, ai film che abbiamo visto, all'insieme di date collegate ad eventi che abbiamo studiato sui banchi di scuola. Ci sembra un fenomeno indicibilmente crudele, violento e mostruoso, ma crudele violento mostruoso come quanto lo può essere un film horror, che finisce nel momento in cui si decide di spegnere il televisore e rimane relegato in una dimensione fittizia. La guerra rimane stampata sui libri, impressa nella nostra mente come un'immagine troppo astratta e distante. Solo nel momento in cui, un giorno, essa ci dovesse bussare alla porta all'improvviso riusciremmo a renderci conto di cosa essa sia in verità. 
E' per questo che mi piace leggere libri sulla guerra. Non per gusto morboso, bensì per potermi immedesimare in essa tanto da poter uscire da quella condizione di annebbiamento che ci fa ritenere la violenza verso il prossimo come una realtà distante.
Ho sempre sentito molto parlare, però, di letteratura riguardante la Seconda guerra mondiale, lo sterminio degli ebrei e la disumanità dei campi di concentramento. Pare che davanti a queste mostruosità tanto impressionanti, la Prima guerra mondiale passi un po' in secondo piano. Con Niente di nuovo sul fronte occidentale ho imparato che anche la Grande Guerra del 1914 è tanto "guerra" quanto quella del '39; non meno atroce, non meno insensata, non meno gratuitamente distruttiva di qualsiasi sentimento di solidarietà e umanità.
Remarque nasce come giornalista e sfrutta lo stile giornalistico anche in questo romanzo: ciò rende la descrizione di alcuni episodi estremamente puntuale e dettagliata, tanto da rendere le scene quasi fisiche. E' straziante leggere dei laceranti periodi di trincea dal sonno disturbato, il vitto scarso e mezzo divorato dai ratti, la sporcizia e il rischio di morte sempre imminente; un oscuro demone avvinghiato sulla spalla con le unghie sulle spalle dei soldati, a sussurrargli nelle orecchie. Fanno pena le povere reclute che impazziscono dopo pochi giorni, che si lanciano folli e cieche sotto il fuoco o che con tutte le loro forze tentano di comportarsi in maniera adeguata, fallendo miseramente.
Senza tralasciare le disastrose condizioni degli ospedali di guerra, le descrizioni poco raccomandabili a chi è facilmente suggestionabile delle ferite, dei corpi martoriati di uomini e animali.
Ai fatti nudi e crudi si affiancano momenti di introspezione ed analisi psicologica estremamente interessanti e sviluppati con uno stile lirico, quasi poetico, che utilizza un linguaggio ricco e avvolgente, sensoriale. Si segue lo sviluppo, nell'animo dei protagonisti, di un crescente senso di indifferenza nei confronti della morte: vedere la morte, provocarla diventano atti quotidiani su cui non si riflette nemmeno più. Ma spesso ci si domanda anche cosa sarà della generazione formata al contrario, a cui è stato insegnato ad esercitare la violenza senza darvi peso, quando questa tornerà in civiltà e dovrà uniformarsi alle comuni regole etiche; cosa accadrà a tutti i giovani spinti in guerra dalla propaganda entusiasta e patriottica e rimasti traumatizzati o mutilati permanentemente. Si discute su chi l'abbia voluta questa guerra, su quanto sia relativo il concetto di giusto e sbagliato.
E' un romanzo a 360° che affianca alla cruda fisicità un vasto ed impalpabile universo mentale. Rappresenta un'epoca e la vita di una generazione persa e distrutta in 226 pagine, con uno stile mutevole e perfettamente adeguato ai contenuti.
Questo libro andrebbe letto almeno una volta nella vita, andrebbe insegnato nelle scuole ad uso informativo, ma soprattutto come monito a non diventare indifferenti, ad imparare a riflettere, ad amare la propria condizione, quando questa permette di avere una formazione intellettuale ed umana profonda e non una formazione al contrario ed involutiva come quella dei numerosi personaggi di questa storia.


VOTO: 9 e mezzo

domenica 25 settembre 2016

L'idiota - Fëdor Dostoevskij

L'idiota - Fedor Dostoevskij 
Pagine: 636
Edizione: Crescere Edizioni

TRAMA                                                                                   
Il giovane principe Myskin ritorna in Russia per ottenere la sua eredità, dopo aver trascorso molto tempo in Svizzera, dove si era recato per curare una malattia nervosa. Durante il viaggio in treno incontra Parfen Rogozin, un ragazzo esuberante, follemente innamorato di Nastas'ja Filippovna. 
I tre sono destinati a ritrovarsi a San Pietroburgo, dove saranno trascinati in un vortice di avvenimenti e passioni, fino a un tragico epilogo.


RECENSIONE                                                                              
Ho aspettato a lungo prima di iniziare questo romanzo, perchè sapevo che di tempo me ne avrebbe "rubato" parecchio. Ho centellinato la lettura, poche pagine alla volta tra un impegno e l'altro, fino ad una vacanza al mare in cui non avevo altro da fare che leggere, e Dostoevskij mi ha salvato da infiniti pomeriggi al sole a fissare l'acqua e nient'altro. L'ho iniziato in una città e l'ho finito in un'altra, dopo essermi trasferita e dopo aver iniziato a studiare il russo, lingua madre dello scrittore. A sentir parlare di cultura russa e popolo russo, io mi sentivo già a casa, già in confidenza con i paesaggi di Pietroburgo e i nomi più comuni, perchè un pezzo importante di quel paese mi era già stato mostrato in questo romanzo. 
Più di ogni altra cosa, mi erano stati mostrati dei "tipi" peculiari e unici, così come le persone più comuni, ma immersi gli uni e gli altri nell'etichetta delle famiglie altolocate, caratterizzati tutti dall'orgoglio russo, dal rigore e dal rispetto dei riti, dai rapporti di convenienza trasformati in un minuto in grandissime amicizie permeate di riconoscenza e fiducia. 
La progettazione dell'intreccio è geniale, così come incomparabile è la maestria dell'autore nel gestirlo senza mai creare confusione. All'inizio della lettura, segnavo i nomi dei personaggi man mano che li incontravo; man mano che gli ultimi arrivati andavano ad ammucchiarsi sulla pila di tutte le anime e di tutti i corpi già presenti. Ho smesso dopo pochi capitoli, perchè ho capito che non ne avrei avuto bisogno, che non mi sarei dimenticata il nome o la posizione sociale dell'uno o dell'altro. 
L'intreccio è, infatti, veramente contorto, ma i guai seri ed intricati cominciano dopo circa 350 pagine. Prima, lo scrittore si dedica a preparare il terreno per il grande concentrato di avvenimenti finale: presenta ogni individuo a tutto tondo, facendolo parlare ed agire in vari contesti, vari momenti e a contatto con persone diverse; facendogli cambiare stato d'animo, da lucido a confusionale. Dopo tutto il preambolo, il lettore è in grado di capire ed apprezzare ognuno fino in fondo, di partecipare emotivamente nei cambiamenti di relazione, come se fosse a contatto con amici di vecchia data che si sposano e si lasciano, che rubano, che si uniscono in ambigue alleanze.
Il lettore si affeziona e quando abbandona la lettura, nel momento in cui la riprende e ritrova i personaggi intenti a dialogare, si sente come un invisibile fantasma che entra, non visto, in una delle stanze della casa che ha deciso di infestare e vi ritrova gli inquilini intenti a bere un caffè, e si sente bene in compagnia delle persone amate che osserva ogni giorno, nonostante queste non abbiano nemmeno una vaga idea della sua presenza.
Come un gigante, il lettore guarda dall'alto la pagina bianca marchiata dalle lettere in inchiostro nero, come guarderebbe una scacchiera bianca e nera su cui le pedine prendono la forma di piccoli principi Myskin, piccoli Rogozin, piccole Nastas'ja Filippovna. 
Le pedine più in risalto sono tre, tre pedine rosa, tre donne dal carattere forte: Lizaveta Prokofevna, Nastas'ja Filippovna e Aglaja Ivanovna, tre personaggi femminili emancipati e ribelli, seducenti, che tengono testa agli uomini e sprigionano con irruenza e senza paura la propria personalità nevrotica e impulsiva.
Il principe Myskin, il protagonista, è invece sommesso; un misto tra un cantastorie e il bambino ingenuo che lo ascolterebbe incantato: ammalia tutti con la sua capacità retorica e allo stesso tempo con la sua innocenza, con il suo candore immacolato che lo rende cieco di fronte agli inganni e ai pericoli del mondo. 
Il ritmo della narrazione è lento. L'azione è pressochè assente, le descrizioni sono prolisse; a dialoghi brevi di botta e risposta sono sostituiti monologhi lunghi pagine. E' una lentezza pensata, studiata ad hoc per lasciare spazio all'esposizione di punti di vista e ragionamenti filosofici, ad idee radicate nello scrittore stesso, di cui i personaggi si fanno portavoce. 
E' un libro che va letto dopo aver accettato il compromesso che oltre a ricevere cultura, bellezza e arricchimento intellettuale, è il lettore stesso a dover dare, a dover donare al romanzo attenzione e tempo, pazienza. 


VOTO: 8