Qui troverai ciò che vuoi:

mercoledì 22 febbraio 2017

La campana di vetro - Sylvia Plath

La campana di vetro - Sylvia Plath
Pagine: 234
Edizione: Mondadori
Titolo originale: The bell jar


TRAMA                                                           
In un albergo di New York per sole donne, Esther, diciannovenne di provincia, studentessa brillante, vincitrice di un soggiorno offerto da una rivista di moda, incomincia a sentirsi come un cavallo da corsa in un mondo senza piste. Intorno a lei, sopra di lei, l'America spietata, borghese e maccartista degli anni Cinquanta. Un mondo alienato, una vera e propria campana di vetro che schiaccia la protagonista sotto il peso della sua protezione, togliendole a poco a poco l'aria. L'alternativa sarà abbandonarsi al fascino soave della morte o lasciarsi invadere la mente dalle onde azzurre dell'elettroshock.


RECENSIONE                                                          
Niente all'inizio di questa storia lascia presagire che il tema sia la malattia mentale. Senza introduzioni nè presentazioni ci viene dipinto un quadretto di scenari adolescenziali che hanno per protagonista una giovane ragazza di cui a malapena conosciamo il nome.
Questa racconta in prima persona e tralascia parecchio l'introspezione e l'analisi psicologica per concentrarsi sui fatti che le avvengono attorno e su quelli a cui prende parte durante un soggiorno a New York, vinto con una borsa di studio, che assomigliano in tutto e per tutto a ciò che potrebbe normalmente accadere ad un'adolescente "in vacanza", che si lascia trascinare dall'atteggiamento irruente di una migliore amica attraente, piena d'iniziativa e un po' arrogante. Più volte la nostra protagonista sembra celarsi nella sua ombra e finisce per essere travolta dal turbine che da lei scaturisce: viene trascinata a feste e presentata ad individui poco raccomandabili o lei stessa, influenzata da chi la circonda, finisce per buttarsi in serate poco piacevoli, in situazioni incomode. 
Nella sua quotidianità e nei suoi pensieri non mancano i ragazzi, come nella vita di ogni teenager che si rispetti, ma ogni suo approccio con il mondo maschile sembra essere nient'altro che un esperimento, ogni volta quasi fatalmente destinato al fallimento. In questa parte della storia non mancano i flashback che si alternano al presente. Verso la fine di quella che potremmo chiamare la prima sezione del romanzo, quando la ragazza comincia a starsene più isolata dal gruppo e quando il rientro a casa diventa imminente, la dimensione intima finisce per prevalere: l'io narrante si concentra sempre più sulla sua passione per la scrittura e per la lettura, in particolare per i racconti brevi o le poesie; il lettore intuisce che il suo più grande sogno e anche la più terribile pressione sulla sua esistenza è l'idea di poter diventare, un giorno, una scrittrice. A poco a poco si avverte un'angoscia crescente, soprattutto nel momento in cui la nostra eroina si trova a rispondere "non lo so" alla domanda su come si immagini il proprio futuro, dopo che per anni aveva avuto sempre la risposta pronta, come se questa fosse preconfezionata, su misura per lei, appresa a memoria e ripetuta a macchinetta quando richiesto. Questo - l'idea del futuro preconfezionato e coerente con ciò che la società si aspetta - è solo uno degli elementi che finiscono per formare una pesante e opprimente campana di vetro, che con un tonfo sordo cala sulla protagonista, rinchiudendola in una gabbia buia e soffocante in cui si sviluppa la sua follia. Dopo il suo rientro dal soggiorno a New York, infatti, la storia subisce una radicale svolta: quasi senza nessun sentore o preavviso, Esther Greenwood impazzisce. Conosciamo finalmente il suo nome per intero, che ci entra nella testa a causa delle numerose volte in cui le infermiere della clinica psichiatrica o gli psicologi lo pronunciano. Come se tornando a casa si levasse la maschera dell'adolescente gioiosa che era durante il soggiorno, la protagonista diventa una figura immobile e apatica: non si lava più, non legge più e non dorme più, rintanata per innumerevoli giorni ma soprattutto notti nella propria nera depressione. Il tono prevalentemente vivace della prima parte, concentrato soprattutto sui fatti, viene sostituito da una voce cupa e rauca che riflette un'interiorità tarlata, corrosa. Molto più spesso ci si lascia andare a brevi descrizioni, che non occupano più di cinque o sei righe, ma che sono ricche di immagini allusive ed evocative, sempre rientranti nel campo semantico della cupezza, dell'oscurità, della morte.
Questo romanzo di Sylvia Plath scaturisce da un'esperienza autobiografica: l'autrice, come Esther, dopo aver svolto studi brillanti e aver ottenuto una borsa di studio tentò il suicidio e venne sottoposta a cure psichiatriche una volta tornata a casa. Identificare le due persone, quella reale che scrive e quella immaginaria che ne diventa l'immagine, come un'unità è molto semplice: Esther parla in prima persona e dalla sua narrazione traspare il dolore della scrittrice stessa. 
Mi hanno sempre affascinato le storie di malattie psichiche che si svolgono in ospedali psichiatrici e analizzano i casi più disparati. Penso che questo romanzo, però, un po' si distingua dagli altri, perchè la follia viene raccontata su un piano interamente personale, quasi tralasciandone gli aspetti "scientifici": Esther racconta ciò che sente dentro di sè, gli istinti che la colgono, mentre la terapia non viene analizzata se non in rapidi flash.
L'elettroshock non è altro che un attimo, le sedute dal primo psicologo sono brevissime e inconcludenti, pressochè vuote di contenuto; la descrizione delle cliniche non è molto approfondita e solo rapidi sprazzi di quotidianità vengono riportati. Addirittura i colloqui
con la dottoressa Nolan - dei quali il lettore capisce tramite fuggevoli cenni che sono più lunghi, approfonditi e utili - non vengono riportati se non quando la voce narrante si ricorda di una cosa che ha riferito e la riporta così, come per caso. Il processo che la porta fino alla guarigione è come cancellato; lo sprazzo di tempo collocato tra l'inizio del ricovero e la possibile uscita è come offuscato da un'intensa luce davanti alla quale si può intravedere qualcosa solo stringendo gli occhi a fessura. Ciò mi lasciata un po' titubante, perchè avrei trovato molto più interessante capire a fondo i meccanismi mentali che scattano durante la riabilitazione, mentre qui l'accento è posto soprattutto, o anzi solamente, sul periodo oscuro di estremo dolore che la precede. Se state cercando un romanzo che descriva in modo più preciso il tipo di malattia, come la si cura e gli ambienti psichiatrici questo non fa per voi. 
In generale, però, La campana di vetro è una lettura scorrevole e adatta per chi è affascinato dalle dolorose deformazioni della mente e semplicemente da come queste si riflettano sull'Io. Inoltre, trovo che sia scritto molto bene e che ci siano parti liriche, in cui la protagonista sembra entrare in una dimensione di profonda connessione con la propria intimità, descritte splendidamente. 


VOTO                                    

sabato 11 febbraio 2017

Segnalazione uscita Dunwich edizioni - The last Valkyrie: Tre anelli - Tre re, Jennifer Sage

Il giorno 13 febbraio non perdetevi l'uscita di questo nuovo romanzo, primo di una trilogia, firmato Jennifer Sage, edito da Dunwich Edizioni: una storia in cui i miti nordici sono protagonisti e si alternano amore, sensualità, avventura e antiche profezie. 

The last Valkyrie: Tre anelli - Tre Re - Jennifer Sage
Pagine: 400
Edizione: Dunwich Edizioni
Genere: Paranormal romance / Fantasy erotico

Potrete acquistarlo cliccando qui a partire dal giorno 13 febbraio, a 3,99€ in formato ebook o 14,90€ in formato cartaceo.


TRAMA                                                        
Un genocidio ha spazzato via le Valchirie, le uniche messaggere capaci di viaggiare liberamente fino ad Asgard e nel Valhalla, oltre agli Dei. Allo stesso tempo, una magia nera tiene segregati gli Dei ad Asgard fino a quando il Ragnarok non sarà completo, e tutti gli Dei e i regni saranno distrutti, in modo che nuove divinità possano salire al trono.
La nascita di Kara su Midgard non è stata registrata e, dalla morte della sua stirpe, ha vissuto nascosta presso il Drago a cui darebbe l'anima. Il suo amore per Zane è un pozzo senza fondo e, nonostante la compagna del Drago sia morta nel genocidio, Kara non può fermare i suoi sentimenti. Non riesce a controllare il suo cuore più di quanto non riesca a capire come essere una Valchiria e liberare gli Dei. Zane è stato il suo mondo per più di due secoli, mantenendo segreti che potrebbero mandarla completamente in frantumi.
Rune ha concubine e contratti, ma adesso ha il compito di insegnare la magia a una Valchiria ormai sola per fermare la nazione Pro Ragnarok, come lui stesso la chiama. Rune non prende parti, ma conoscere il piacere...lo conosce molto, molto bene. Qualcosa di cui Kara ha bisogno da moltissimo tempo e che le è sempre stato negato. Il suo cuore appartiene a Zane, il suo Drago, ma lui non è mai stato davvero suo. 
Illustrazione a cura di Claudia di Phatpuppy Art
Un viaggio attraverso l'amore, il lutto, la magia e la redenzione nel più improbabile dei luoghi.


L'AUTRICE                                                               
Jennifer Sage ricevette i primi riconoscimenti di scrittrice sin dalla seconda elementare, quando le venne concesso il premio Giovane Autore nello Stato della Florida. Le sue poesie erotiche sono state pubblicate e condivise in tutto il mondo, i suoi libri apprezzati a livello internazionale.
Nel 2011 è stato pubblicato il suo primo romanzo, Immortal Dreams, subito seguito da Immortal Bound. I due volumi sono parte di una serie fantasy/suspense/romance ambientata in uno scenario urbano. Keltor, primo libro della serie The Guardian Archives, è stato pubblicato nel 2012 ed inserito nella categoria dei paranormal romance. I due seguiti, Ratha - la magia interiore e Dante - parte prima, sono stati pubblicati anche in Italia. È in arrivo in Italia anche la seconda parte di Dante, in uscita nell'estate 2017. 

giovedì 2 febbraio 2017

La luna e i falò, Cesare Pavese

La luna e i falò - Cesare Pavese
Pagine: 211
Edizione: Einaudi


TRAMA                                                                              
Il protagonista, Anguilla, all'indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe, dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell'amico Nuto, ripercorre i luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. 


RECENSIONE                                                                   
Il protagonista di questo libro non ha nome, non ha radici, non ha una famiglia. Fin dall’inizio si presenta come un atomo solitario vagante per l’universo, che finisce per atterrare nella valle del Belbo, come per caso, più che per scelta. Qui incontra qualche suo simile, ma soprattutto elementi poco reattivi con lui. Gli viene dato un nome, Anguilla, diversi tetti sotto cui stare, ma non si sentirà mai al suo posto. È formidabile il modo in cui Pavese riesce a rendere la condizione ambigua di questo soggetto, l’espatriato, tipica figura dei suoi romanzi. L’espatriato è colui che alla ricerca di una vita migliore, del proprio posto nel mondo o semplicemente per fare fortuna si sposta dal paese d’origine e viaggia, soprattutto all’estero e nelle Americhe. Ma un giorno, spinto da un richiamo interiore, torna alla propria terra d’origine con tutto ciò che questo comporta, trovandosi a dover confrontare il cambiamento e lo spaesamento. Tale condizione richiama quella di Pavese stesso, che durante la sua vita venne condannato a tre anni di confino in Calabria con l’accusa di antifascismo. 
Il suo Anguilla è un bastardo che convive senza apparente difficoltà con questa sua natura dai tratti sfumati, indefiniti. Sembra star bene senza sapere chi l’ha messo al mondo, di che colore erano gli occhi di sua madre, qual è la sua vera terra, la sua vera casa, tutto ciò che compone il suo vero Io. Semplicemente atterra per caso sulle rive del Belbo, a Santo Stefano in Piemonte, come un piccolo uccellino incapace di volare piomba al suolo.
All’inizio del racconto egli è adulto. Lo incontriamo al momento del suo ritorno dopo aver fatto fortuna in America e compiamo insieme a lui un percorso a ritroso: l’infanzia nella famiglia adottiva, l’adolescenza nella villa della Mora con le tre belle Silvia, Irene e Santina. Soprattutto quest’ultima parte è come dilatata, occupa moltissime pagine. Le avventure adolescenziali di Anguilla sono quasi nulle, la sua realtà è scandita dal lavoro nei campi, dalla sua diligenza. La sua persona è quasi invisibile in questa parte della narrazione, si affida all’osservazione, a guardare gli altri vivere la propria giovinezza al posto di viverla lui stesso. È un personaggio  che si mantiene nell’ombra e resta sconosciuto tanto agli altri personaggi quanto al lettore stesso. Passa le sue giornate in un atteggiamento di modestia, devozione e senso del dovere; a lavorare, a svolgere i compiti che gli sono affidati. Non si capisce perché lo faccia, dato che nei suoi pensieri finisce per prevalere sempre il fascino del rumore del treno che passa, diretto verso mete sconosciute, o i sogni di uno spazio più aperto, impregnato di libertà. Le sue uniche gioie sono la visione di Silvia, il suo amore di lontano che mi ha ricordato un po’ quello del Dolce Stil Novo o l’ammirazione di Leopardi verso la giovane omonima; l’ascolto delle canzoni che Irene suona al pianoforte con le sue mani ben curate. Le due fanciulle sono una parte essenziale del racconto, pur non entrando quasi mai in diretto contatto con Anguilla, mantenendosi sempre ad un gradino di distanza rispetto a lui, che si limita a guardarle di sotto in su. L’unica idea certa che come lettrice sono riuscita a formarmi sul personaggio di Anguilla è che lui sia in realtà superiore alle ragazze, che le guardi inconsapevolmente dall’alto verso il basso, grazie al suo animo ricco di ambizione e aspirazioni di grandezza che si oppone alla superficialità e sostanziale nullafacenza delle due.  
I ricordi seguono quasi sempre l’ordine cronologico, nonostante spesso ci siano dei balzi in avanti, perché ci si concentra su quelli più vividi o su momenti cruciali. Ci sono poi flash del successivo trasferimento a Genova, delle prime relazioni con le donne, e qualche capitolo viene dedicato anche all’America, ma solo in modo fugace. Il tanto bramato desiderio di allargare i propri orizzonti viene quindi esaudito, ma non sembra essere così soddisfacente e fondamentale come sembrava: scompare nell’ombra del passato nella terra della giovinezza, che viene riscoperta nel presente.
L’espediente del ritorno dopo molti anni da parte del protagonista permette di intrecciare il filone dei ricordi alla vita presente. Tanto l’ambientazione quanto le persone vengono come ritratte in maniera speculare, com’erano e come sono.La condizione che Anguilla trova al suo ritorno viene rappresentata emblematicamente dalla famiglia stabilitasi nella casa della sua infanzia: una famiglia misera, composta da persone brutte, vecchie, deformi.  La cosa più agghiacciante è che il narratore rifiuti lo sguardo critico, a favore di un lucido tagliente realismo. Lo storpio, giovane Cinto è agli occhi di Anguilla ciò che sarebbe stato lui se fosse rimasto nel paesino, cristallizzato e immutabile come un minerale in una realtà ignorante e statica. La drammaticità del suo destino ritrae tutta la tristezza della condizione di ristagno di chi affonda le proprie radici nella povertà; esso sembra inoltre rispecchiare la crudele sorte riservata alle tre belle sorelle della Mora, come a voler dire che dall’adolescenza del protagonista, appartenente ad un tempo ormai concluso, fino all’età adulta del presente le
cose non siano cambiate. Come se le belle e ampie valli ricche di coltivazioni siano perseguitate da anni da una maledizione che si abbatte su chi non ha il coraggio di cambiare la propria vita, di lanciarsi verso un ignoto futuro migliore.
Un filo conduttore nella vita del protagonista è Nuto, prima mentore e poi amico alla pari. È un personaggio d’effetto, che si stampa nella memoria del lettore e vi resta. Ha personalità, senso della giustizia e ideali corretti in un mondo dagli orizzonti ristretti e forgiato nel pregiudizio bigotto. Pur restando sempre “nei paraggi” egli ha avuto il coraggio, seppur solo per qualche anno, di ribellarsi al destino che gli era stato riservato, ovvero quello di proseguire il lavoro del padre, e ha preferito spostarsi, cambiare continuamente la sua posizione sulla mappa grazie al mestiere di musicista. In quegli anni si è dato ad una vita libertina, fatta di frequenti notti in bianco nei campi dopo le feste di paese, continuamente spostandosi nelle cittadine circostanti come fosse il pifferaio magico con una schiera di giovani ballerini brilli al seguito.  Una vita spavalda interrotta dall’orrore e dalla crudeltà della guerra, che riporta tutti con i piedi per terra, attenti alle necessità primarie e alla sopravvivenza.
Pur nella sua semplicità, ho trovato questo libro molto denso. La sostanziale mancanza d’azione  permette di immergersi nelle profondità dell’animo umano, di indagare la bramosia che spinge nelle viscere delle persone più umili. È un romanzo, soprattutto, che mi ha trasmesso tristezza, come se la depressione di Cesare Pavese non potesse evitare di impregnare la sua scrittura. Essa traspare, in più punti, in modo velato ma percepibile: un’amarezza della vita che fa da sfondo costante. 


VOTO